Profili giuridici di valorizzazione di grandi attrattori culturali: dinamiche di cooperazione istituzionale e modelli di turismo sostenibile.

Contrattista: Ph.D. Avv. Gianpiero Zinzi
Tutor: prof. Marco Calabrò

La vastità del patrimonio culturale da tutelare, la scarsità delle risorse pubbliche disponibili, i vincoli di bilancio degli Enti pubblici, sono alcuni dei motivi che hanno spinto la Pubblica Amministrazione a prestare una sempre crescente attenzione al fenomeno del partenariato pubblico-privato, ed in particolare ai temi della sponsorizzazione e delle erogazioni liberali.

Gli istituti, certamente non privi di solide radici nei dettami della Grundnorm, involgono le molteplici e diverse attività con cui i privati possono concorrere alla valorizzazione dei beni culturali, realizzando una proficua – ed oramai indispensabile – sussidiarietà orizzontale tesa alla promozione dell’arte, della cultura e della scienza, nonché alla salvaguardia, alla valorizzazione ed allo sviluppo del patrimonio artistico e culturale del Paese.

Ma – è bene sin d’ora precisarlo – la vera novità nel panorama nazionale normativo (oltreché gestionale) dei beni culturali è rappresentata dal contratto di sponsorizzazione che, al di là delle questioni tecnico-giuridiche che ancora alimenta, sembra tracciare la strada verso una nuova visione del ‘prodotto’ cultura, sempre più orientato verso una gestione manageriale e meno ‘romantica’ del patrimonio culturale.

Peraltro la sponsorizzazione, nel porre in correlazione privati finanziatori e pubbliche istituzioni, dà luogo ad un rapporto inedito per il settore dei beni culturali, volto da una parte ad assicurare promozione, tutela e valorizzazione delle opere d’arte e di cultura, dall’altra a fornire al privato finanziatore visibilità economica e pubblicitaria (oltre a considerevoli sgravi fiscali).

La tutela dei beni storici e artistici, cui la Repubblica tende – riservando precisi spazi di intervento alle varie manifestazioni della pubblica autorità che la costituiscono (art. 9 Cost.), in uno con il regime della loro valorizzazione (comma 3 art. 117 Cost.), che apre -tra l’altro- importanti spazi di intervento ai privati, trova in una pluralità di disposizioni validi strumenti operativi volti non solo ad attuarne i nobili precetti, ma anche ad incentivarne il perseguimento per il tramite di sempre nuove forme di azione.

Su tutti il D.Lgs. 42/2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio (di seguito Codice bb.cc.), ove, pur se attraverso due sistemi alternativi e spesso concorrenti (si pensi alle erogazioni liberali ed alle sponsorizzazioni), l’ordinamento si apre a nuovi protocolli negoziali atipici in grado di garantire appieno l’attuazione tanto delle istanze di tutela poste dal Costituente tra i principi fondamentali, quanto delle aspirazioni di valorizzazione demandate alla legislazione concorrente Stato – Regioni.

E’ su queste basi giuridiche che i cronici problemi di bilancio ed i vincoli economico-finanziari degli Enti hanno contribuito a determinare la crisi del modello dell’esclusivo intervento pubblico nel ‘pianeta cultura’, aprendo inevitabilmente ad innovative species contrattuali riconducibili al fenomeno del partenariato pubblico-privato.

L’utilizzabilità di tale modello non appare, invero, priva di conseguenze problematiche: in primo luogo la possibilità di conciliare il perseguimento del profitto da parte dei privati, ma anche le ragioni dell’economicità e dell’efficienza con le ragioni dell’imparzialità, della equità (fruibilità pubblica del bene da parte delle classi meno abbienti) e dell’utilizzo del bene (aspetto sociale e culturale della fruizione del bene).

Ciononostante il partenariato ben si presta ad essere esportato nel settore dei beni culturali, soprattutto a fronte dell’elevata visibilità che alcune strutture bisognose di intervento consentono di procurare allo sponsor privato.

Una nuova forma di mecenatismo culturale che si fonda sul regime fiscale agevolativo per il privato benefattore, oltreché su importati ritorni di immagine – economici e commerciali – ma che non intacca le prerogative dell’Amministrazione circa il governo del bene culturale.

Non è un caso, quindi, che l’affermazione delle nuove forme negoziali nel campo culturale abbia vissuto un progressivo, ma lento, sviluppo nomologico investendo dapprima l’area artistica ‘immateriale’, e solo in tempi recenti il campo delle res culturali.

Prima di approfondire il tema, però, è fondamentale una riflessione sul testo che meglio inquadra e indirizza la materia dei beni ambientali, vale a dire il Codice dei beni culturali e del paesaggio che venne istituito con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137 ed entrato in vigore il 1° maggio 2004.

Si tratta di un intervento di particolare rilievo, non limitandosi la delega a prevedere un mero riordino della materia ma un vero e proprio riassetto e, limitatamente alla lett. a relativa ai beni culturali ed ambientali, la codificazione delle disposizioni legislative.

Le ragioni della necessità di procedere al riordino e all’aggiornamento delle norme riguardanti la tutela del patrimonio culturale non possono che ricondursi alla crescente complessità nello sviluppo del territorio italiano e al cambiamento del quadro istituzionale intervenuto con la modifica del Titolo V della Costituzione. Nel rispetto della norma costituzionale, art. 9, attorno alla quale ruota il nuovo codice, quest’ultimo si prefigge, in generale, la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, in quanto finalizzate “a preservare la memoria della comunità nazionale e a promuovere lo sviluppo culturale del Paese”.

È fondamentale rilevare che la riforma costituzionale ha distinto l’attività di tutela da quella di valorizzazione, ponendo non pochi dubbi in ordine alla compatibilità delle disposizioni che, a Costituzione invariata, avevano realizzato delle forme di decentramento in materia. Il Codice ha avuto, quindi, l’arduo compito di ricomporre la disciplina sulla base dei nuovi equilibri costituzionali. Innanzitutto, si è provveduto ad introdurre per la prima volta – nella normativa sostanziale di settore – le nozioni di “tutela” e “valorizzazione”, dando loro un contenuto chiaro e rigoroso, risolvendo così i dubbi e le ambiguità che la formulazione contenuta nel d.lg. 112/1998 avevano ingenerato.

La tutela è stata individuata nelle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione ( art. 3).

L’attività di valorizzazione, invece, si riconduce all’esercizio delle funzioni e alla disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso (art. 6).

Si è, inoltre, provveduto a stabilire, in modo non equivoco, il necessario rapporto di subordinazione che deve intercorrere tra la valorizzazione e la tutela, nel senso di rendere la seconda parametro e limite della prima.

Al fine assicurare l’esercizio unitario su tutto il territorio nazionale delle funzioni di tutela è stato individuato il Ministero per i Beni e le Attività culturali quale titolare “naturale” di tali funzioni. Alla stregua dell’art. 118 della Costituzione, si è, dunque, considerato preminente, in questo caso, il profilo dell’adeguatezza del livello di attribuzione amministrativa rispetto al concorrente principio di sussidiarietà verticale. Recependo l’orientamento del Consiglio di Stato, per cui la fruizione dei beni culturali è ascrivibile, in diversa percentuale, tanto alla funzione di tutela, quanto alla funzione di valorizzazione, il nuovo Codice, all’art. 3, indica la pubblica fruizione quale fine ultimo dell’attività di tutela e specifica, altresì, che l’attività di valorizzazione deve tendere a realizzare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso. Non di meno apre il titolo dedicato alla valorizzazione con un capo interamente destinato a disciplinare la fruizione.

In particolare, il nuovo codice attribuisce alla potestà legislativa regionale la disciplina della fruizione dei beni presenti negli istituti e nei luoghi della cultura non appartenenti allo Stato o dei quali lo Stato abbia trasferito la disponibilità sulla base della normativa vigente. Per quanto riguarda lo svolgimento della relativa attività è previsto che, al fine di coordinare, armonizzare ed integrare la fruizione, lo Stato, le Regioni e gli altri Enti pubblici territoriali procedano alla stipulazione di accordi su base regionale per definire gli obbiettivi e fissare i tempi e le modalità di attuazione.

In via residuale, qualora non si pervenga alla conclusione di un accordo, ciascun soggetto pubblico sarà tenuto a garantire la fruizione dei beni di cui ha la disponibilità. In proposito, è necessario rilevare che comunque lo Stato può trasferire alle Regioni ed agli altri Enti territoriali la disponibilità di istituti e luoghi della cultura, in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

Venendo alla valorizzazione, si è ribadita, in omaggio al dettato costituzionale, la potestà legislativa concorrente delle Regioni, nell’ambito dei principi fondamentali fissati dal codice, mentre per lo svolgimento delle funzioni amministrative si è fissato il principio dell’ordinario ricorso ad accordi o intese finalizzati ad assicurare il necessario coordinamento sul territorio delle relative attività.

In proposito, una novità di particolare rilievo è la menzione della possibilità dei soggetti pubblici di ricorrere alla esternalizzazione delle attività e dei servizi, quando ciò risponda all’esigenza di assicurare un adeguato livello di valorizzazione dei beni culturali. La scelta della gestione in forma indiretta è lasciata per lo Stato e le Regioni ad una previa valutazione comparativa, in termini di efficienza ed efficacia, degli obiettivi che si intendono perseguire e dei relativi mezzi, tempi e modi; gli altri enti pubblici territoriali ricorrono, invece, ordinariamente alla gestione in forma indiretta, salvo che per le modeste dimensioni o per le caratteristiche dell’attività di valorizzazione, non risulti conveniente od opportuna la gestione in forma diretta.

A questo punto, è importante sottolineare che in tema di valorizzazione, promozione e salvaguardia del patrimonio culturale, le politiche regionali  hanno risentito e, in parte, ancora risentono della mancanza di uno specifico e adeguato strumento normativo che fornisca un quadro di riferimento per attuare gli interventi sui beni culturali in termini di qualità e coerenza con la normativa nazionale con effetti negativi soprattutto nel Meridione dove emerge anche un ritardo rispetto alle esperienze di gestione – fondazioni, imprese e istituzioni – costituite grazie ad un processo di esternalizzazione dei servizi pubblici da parte di Regioni ed Enti locali, nato circa venti anni fa, che in altre regioni hanno migliorato e arricchito l’offerta culturale del territorio ai cittadini con un più efficiente utilizzo delle risorse. È però opportuno anche precisare che queste esperienze di gestione  non sono nel Mezzogiorno del tutto assenti. Anche qui esistono esempi virtuosi di una programmazione culturale efficiente, di rivitalizzazione dei luoghi d’arte, di creazione di nuova occupazione. Parliamo del Consorzio del Teatro Pubblico Pugliese, del nuovo Museo di Arte contemporanea Donna Regina di Napoli, della Fondazione Federico II di Palermo o della Fondazione che, in un piccolo centro di 1.000 abitanti della Sardegna, ha valorizzato il sito Unesco di Barumini. Questi, e tanti altri casi, dimostrano che la buona gestione è possibile e che le competenze non mancano, ma ancora molto c’è da fare per valorizzare queste esperienze e modernizzare l’offerta culturale del nostro Sud a beneficio di una maggiore attrattività turistica e di una più ampia fruizione da parte dei cittadini. Non si tratta solo di incentivare la visita ai musei o ai grandi siti culturali, ma di portare la cultura nelle famiglie, nelle case, nei luoghi di lavoro e d’incontro, dove la gente vive ogni giorno. Anche per fronteggiare l’allontanamento dei cittadini dalla fruizione culturale, che a livello Paese nel 2012 è diminuita in tutti i settori e nel Meridione assume i contorni di un vero crollo dei consumi.

Siffatta carenza ha costituito certamente un limite, soprattutto per la regione Campania, al perseguimento degli obiettivi previsti dall’art. 6 dello Statuto, laddove si legge che la Regione “sollecita e promuove lo sviluppo delle attività culturali, in ogni libera manifestazione e potenzia le attività di ricerca”.

La prima ed unica legge, infatti, che la Regione Campania ha emanato per contribuire alla tutela, alla salvaguardia e alla valorizzazione di beni mobili ed immobili, aventi carattere storico–artistico è la legge del 9 novembre 1974 n. 58, concernente il “Programma di valorizzazione dei Beni Culturali della Regione Campania”, finalizzata soprattutto al finanziamento annuale di un piano di interventi per il miglioramento della conservazione fisica dei beni e della loro sicurezza, integrità e valore.

Due anni dopo, con delibera n. 200/4 del 20 dicembre 1976, la Giunta Regionale ha approvato il relativo Regolamento di attuazione, dettando le modalità e le procedure per la formazione e l’attuazione del piano.

Ad oggi non si può non rilevare che la Regione Campania non abbia ancora  adeguatamente riformato la propria legislazione in materia di beni culturali ai nuovi principi fissati dallo Stato. Si è affidata, sia per quanto riguarda il “miglioramento della conservazione fisica dei beni e della loro sicurezza, integrità e valore” sia per quanto attiene all’attività di “promozione e valorizzazione”, a provvedimenti attuativi approvati dalla Giunta Regionale che, pur recependo gli orientamenti della nuova disciplina statale, non consentono ancora di effettuare un’appropriata strategia di promozione dei beni culturali, capace di valorizzare e promuovere la conoscenza e l’armonizzazione degli interventi con le esigenze della pianificazione territoriale, dell’urbanistica, dell’istruzione e del turismo. Su questo fronte però non si può non citare, tra i tentativi,  la  proposta del 2006 di Piano territoriale regionale (Ptr), adottata dalla Giunta regionale in fase di ridefinizione dopo le osservazioni e proposte di modifica, che assumeva come proprio epicentro strategico la valorizzazione delle risorse territoriali. Il Ptr promuove il rafforzamento di una Campania plurale, attraverso la ricerca di un più organico investimento nelle esperienze di programmazione, in corso e future, e il consolidarsi di reti di connessione di un sistema policentrico basate su di un efficiente sistema della mobilità, delle continuità ecologiche, della valorizzazione paesaggistica e della gestione efficace del grado di rischio ambientale del territorio.

Il Ptr definisce quali ambiti territoriali di base per la nuova programmazione vale a dire i sistemi territoriali di sviluppo (Sts) individuati in funzione dell’assetto geografico-ambientale del territorio, delle alleanze condotte tra i vari attori e delle linee strategiche conseguenti, secondo una dominante di sviluppo riconosciuta per ciascun Sts.

Un capitolo a parte, nella vicenda della tutela e valorizzazione dei beni culturali della regione Campania, estremamente spinoso per la sua peculiarità,  è certamente da ascriversi al Piano Pompei. Con la creazione della Soprintendenza autonoma nel 1997, Pompei costituiva una sorta di esperimento amministrativo di autonomia gestionale in vista di futuri cambiamenti in programma nella struttura dell’intero MIBAC. Nella stessa ottica furono infatti di seguito create le Soprintendenze autonome per le aree archeologiche di Roma e dei poli museali di Venezia, Firenze e Napoli.

In tal modo, con la creazione di entità autonome si decentrarono talune attività e servizi prima accentrati a livello ministeriale, si crearono figure professionali ad hoc (city manager), si dirottarono nuove risorse, ma soprattutto si dotarono i Soprintendenti di poteri d’intervento più incisivi, tali da permettere l’assunzione di decisioni indipendenti e regolare le azioni in conformità con le esigenze locali. Il “Piano” si snodava, sostanzialmente, in tre punti cardine: l’introduzione di un direttore amministrativo cui demandare la sfera gestionale del sito, la creazione di un Consiglio di amministrazione (di seguito CdA) dotato di poteri mutuabili dalle strutture societarie privatistiche, il riconoscimento in capo alla Soprintendenza dell’autonomia scientifica e decisionale in ambito tecnico, oltreché dell’autonomia contabile e finanziaria: entità amministrative autonome capaci di individuare, con appropriati business plan, le più opportune forme di intervento conservativo e valoriale delle opere e dei luoghi, di progettare la realizzazione degli interventi, di finanziare le spese con risorse proprie e specchiatamente riportate in bilanci ‘economici’, e chiamate a dar conto del loro operato al MIBAC, ai cittadini ed al Paese. Nonostante il forte aumento delle entrate si colse fin dal principio il nodo fondamentale di quello che di lì a breve sarebbe apparso come un vistoso insuccesso: l’impossibilità di spesa.

Il 4 luglio 2008 l’esperimento del “Piano per Pompei” poteva dirsi del tutto esaurito con la nomina di un Commissario governativo per l’area archeologica di Pompei nella persona del Prefetto di Napoli.

Da qui la querelle, che vide il Soprintendente contestare la legittimità e l’opportunità del commissariamento, volta a sottolineare l’incoerenza tra lo strumento d’intervento emergenziale e le effettive condizioni del sito archeologico.

Dal che, il 5 aprile 2012 il lancio di un nuovo Piano, il cd. Grande Progetto Pompei (in attuazione del D.L. 31/3/2011 n. 34), volto ad “arrestare il degrado e riportare il sito archeologico a migliori condizioni di conservazione”, prevedendo l’investimento complessivo di 105 milioni di euro nel triennio 2012-15.

Dall’iniziale “Piano per Pompei” al “Grande Progetto Pompei”, un percorso che testimonia da una parte il mancato coordinamento tra differenti pratiche e professionalità, dall’altra la costante incertezza amministrativa e gestionale del ‘bene cultura’: immancabili progressi tecnico-scientifici e professionali non sono stati accompagnati da uno sforzo parallelo di pianificazione e gestione manageriale, economica e finanziaria capace di attrarre risorse, cultura ed esperienze.

Considerazioni queste che appaiono fondamentali non solo in vista degli interventi di attuazione del “Grande Progetto Pompei 2012-15”, ma anche oltre gli orizzonti temporali dello stesso, nella speranza di interventi sempre più dettati dall’ordinarietà.

Un discorso a parte, merita invece  l’esperienza di Ercolano che si mostra parzialmente diverso dal ‘caso’ Pompei, sia in termini di pratiche gestionali che in ambito tecnico-giuridico. L’intervento sul sito di Ercolano è infatti caratterizzato dall’innovativo accordo di partenariato pubblico-privato tra la Soprintendenza archeologica di Pompei ed il Packard Humanities Institute (di seguito P.H.I.), stipulato nell’aprile 2001 con la sottoscrizione del “Memorandum of under standing” e favorito dalla mediazione del Direttore della British School at Rome. Nel maggio 2001 la sottoscrizione del relativo Protocollo d’intesa che ha dato vita al “Herculaneum Conservation Project” (di seguito H.C.P.).

Le parti sono giunte alla stipula di un contratto di sponsorizzazione avente ad oggetto l’assistenza alla Soprintendenza nelle attività di conservazione dell’intero sito archeologico, cui sono seguiti ‘progetti minori’ e lavori emergenziali mirati a stabilizzare le aree a maggior rischio.

Idea portante del progetto è stata l’uniformità ed omogeneizzazione degli interventi di tutela dei beni, cosicché tutte le parti interessate all’opera di restauro (dalle superfici architettoniche alle pitture murali, le strutture, gli arredi ed i giardini) non rappresentassero elementi disgiunti e scollegati da recuperare in tempi, modi e tecniche differenti, ma piuttosto un unicum da sottoporre ad un intervento complessivo e completo. Si comprese con immediatezza che occorrevano un maggior numero di figure professionali e tempi adeguati, anche superiori a quelli inizialmente previsti; necessitavano capitali e idee differenti, ma sapientemente coordinati e teleologicamente orientati.

La soluzione è stata trovata coinvolgendo nel progetto la British School at Rome, anch’essa sottoposta al controllo della Soprintendenza. Con queste premesse si è giunti alla stipula, nel 2004, di un apposito ed organico contratto di sponsorizzazione.

Ne è seguita la creazione di un comitato scientifico di cui erano parte il Direttore della British School, il Soprintendente di Napoli e Pompei, il Soprintendente regionale, il Direttore del Centro internazionale per gli studi e la conservazione del patrimonio culturale (I.C.C.R.O.M.) e tre studiosi nel campo dell’archeologia vesuviana.

L’oggetto del contratto di sponsorizzazione risulta costituito dalla “realizzazione a propria cura e spese, di lavori e di conservazione, restauro e valorizzazione del sito di Ercolano” da parte della British School, secondo le prestabilite modalità di interventi organici dispiegati con il Piano annuale di esecuzione e la Programmazione triennale dei lavori.

Molteplici i benefici per la Soprintendenza: un considerevole finanziamento esterno per il recupero e la conservazione del patrimonio storico, artistico e culturale, in uno alla salvaguardia delle risorse interne di bilancio, da poter quindi destinare ad altre attività. In più, l’esecuzione diretta da parte della British School dei lavori con l’impiego di professionisti specializzati e di qualificate ditte appaltanti: come, infatti, precisato all’articolo 3.3 del contratto di sponsorizzazione, spetta allo sponsor individuare le ditte appaltatrici e stipulare con esse le dovute convenzioni, assicurandosi che l’esecuzione dei lavori avvenga nel rispetto della normativa vigente. Spetta inoltre allo sponsor, in qualità di soggetto erogante, provvedere alla corresponsione dei corrispettivi pattuiti con le ditte appaltatrici, nonché provvedere, semestralmente, alla redazione di un report sugli interventi in corso di esecuzione.

La sponsorizzazione, certamente positiva e di ampio respiro qualitativo, ha avuto un ulteriore profilo di vantaggio con il rinnovo del contratto, dapprima nel 2004 e poi nel 2009, prevedendosi l’estensione della collaborazione alla progettazione dei lavori e l’attribuzione dell’onere di spesa ad esclusivo carico dello sponsor esterno.

Il progetto complessivo consta di tre fasi, diverse per tempi, per impegno e per coinvolgimento del partner: dal 2001 al 2004, secondo uno schema di sponsorship tradizionale, con il rimborso del costo dei lavori pianificati e attuati dalla Soprintendenza; dal 2004 al 2009, con l’assunzione, da parte della British School, della diretta responsabilità di pianificare e attuare i lavori (cd. periodo eroico); dal 2009 a tutt’oggi, fase in cui lo sponsor trasferisce gradualmente alla Soprintendenza le gestione diretta e la manutenzione delle opere restaurate (cd. fase della strategia d’uscita).

La sostanza dell’esperienza sta nell’accelerazione data al progetto a partire dal 2004, allorquando l’H.C.P. decise di assumere in proprio la responsabilità della pianificazione e realizzazione delle opere di restauro, data la forte dilatazione dei tempi di esecuzione impiegati dalla Soprintendenza fino a quel momento ed il correlato rischio di giungere in ritardo rispetto ai tempi della fase progettuale iniziale e dell’impegno finanziario preventivato.

L’opportunità si concretizzò in seguito all’entrata in vigore del D.lgs 42/2004, rendendosi possibile – mediante la sottoscrizione del contratto di sponsorizzazione – un maggiore coinvolgimento dello sponsor nell’affaire, riconoscendogli l’opportunità di intraprendere direttamente i lavori sul sito, a sue spese e sotto la sua gestione, nonché di pianificare in proprio i tempi, i modi e le attività delle fasi progettuale, del finanziamento e dell’esecuzione delle opere, ricorrendo a schemi contrattuali di diritto privato e gestendo direttamente l’intero processo. Una forma di collaborazione che ha consentito di realizzare opere di elevata qualità con esclusivo finanziamento privato, con l’utilizzo di tecnici altamente qualificati (individuati dallo sponsor ed operanti sotto il controllo della Soprintendenza) e nel rispetto di ristretti e certi tempi di esecuzione.

Un modello di grande impatto simbiotico per futuri progetti di valorizzazione e tutela dei beni culturali. Basti pensare che l’innovativa ‘strategia di uscita’ contempla una “programmazione congiunta” secondo la quale la Soprintendenza si è impegnata ad investire 1 miliardo di euro nel 2009 e quasi 2 miliardi di euro nel 2010 e nel 2011 per finanziare progetti pianificati di concerto con gli specialisti di H.C.P., ma appaltati dall’ente pubblico, così da consentire al partner di uscire dal progetto gradualmente, riducendo in maniera sempre più significativa il proprio coinvolgimento: una exit strategy che obbliga lo sponsor a consegnare alla Soprintendenza i progetti ultimati, nonché ad affidare alla stessa i lavori progettati ed ancora in corso di esecuzione.

Il ripetersi delle condizioni di favore riscontrate nell’esperienza maturata sul sito di Ercolano appare ripetibile in termini generali, ma difficilmente concretizzabile quanto all’individuazione di sponsor disposti ad intervenire con lo stesso spirito e contributo della Packard. Basti pensare al disinteresse mostrato dallo sponsor del ‘progetto Ercolano’ rispetto a forme dirette di ritorno dell’immagine che, nella regola contrattuale della sponsorizzazione, sono invece il punto di forza della partecipazione privata.

Invero, il partecipante estero ha chiesto esclusivamente la possibilità di menzionare gli effetti del proprio intervento su riviste scientifiche specializzate e su modeste targhe commemorative piantate nel sito, oltre alla possibilità di poter organizzare visite guidate private, in orari di chiusura al pubblico, per gruppi di persone invitate a scopo accademico o scientifico: ciò che rende l’operazione de qua configurabile alla stregua di un’elargizione liberale-mecenatistica, più che di una rappresentazione sinallagmatico contrattuale che rispetti i crismi del contratto di sponsorizzazione vero e proprio. Una nuova ipotesi di liberalità nella quale, con la sottoscrizione del contratto di sponsorizzazione, il ‘mecenate’ (sponsor) partecipa ad ogni fase dell’attività espletata dall’ente pubblico sul progetto.

Ciononostante lascia forse ben sperare, per il futuro del nostro patrimonio artistico culturale, la costituzione a Pisa, nel luglio del 2013, sulla scia dell’esperienza di Ercolano, della nuova Fondazione Packard, costituita e partecipata dalla British School at Rome e conosciuta come “Istituto Packard per i beni culturali”.

Non è quindi improprio rilevare come l’analisi comparata delle esperienze di Ercolano e Pompei, distanti pochi chilometri ma – a quanto pare- lontane anni luce nella realtà dei fatti, evidenzi che la gestione perennemente (rectius, esclusivamente) emergenziale dei beni culturali non appaia la strada idonea da perseguire per una piena valorizzazione degli stessi.

La normativa di necessità ed urgenza, in uno ai limiti di gestione degli appalti e del personale derivanti dalla farraginosa normativa di riferimento (norme generali sugli appalti e sul rapporto di lavoro alle dipendenze delle PP.AA.) che si mostrano poco adattabili al mondo dei beni artistici,  hanno favorito il propagarsi di situazioni di stallo e perpetrata inattività di cui il sito pompeiano assurge ad emblema. Viceversa, la partnership sperimentata ad Ercolano, svincolata dai patologici ostacoli normativi e burocratici, ha fatto sì che le ingenti risorse finanziarie provenienti dallo sponsor privato fruttassero appieno.

Viene da pensare, quindi, come il problema strutturale che involge la vicenda Pompei non attenga tanto alle risorse disponibili, quanto alle modalità di gestione delle stesse. La conferma ci è data dall’osservazione del cambio di rotta che si è avuto nel Progetto Ercolano fra la prima e la seconda fase, quando, a fronte di tre anni di ‘inattività’ della S.A.P., a far data dal 2004 lo sponsor abbia visto aumentare i propri gradi di libertà nella gestione del progetto e nelle concrete modalità di esecuzione delle opere.

Nel rispetto dei precetti costituzionali di imparzialità e buon andamento, nonché nell’osservanza dei principi comunitari in materia di concorrenza, appare appropriato ipotizzare un  piano di recupero per Pompei ove la parte normativa e, burocratica, sulla scia dell’esperienza di Ercolano, lasci il passo al versante manageriale di stampo privatistico, ma sempre teleologicamente orientato alla massimizzazione dell’interesse pubblico specifico, consistente – è opportuno ribadirlo – nella pronta tutela del bene culturale.